domenica 5 settembre 2010

Incipit

Che questo abominio, incubo cosciente, rantolo ferale di tristo augurio, turbine di perversione e blasfemia, abbia inizio!

- Chiusi la porta alle mie spalle. Ma appena che ebbi udito il rumore della serratura che scattava in modo irreversibile, mi accorsi che nel compiere quel semplice gesto, preso com'ero dai miei pensieri, avevo disgraziatamente dimenticato di attraversare l'uscio per intero. Prima un acuto dolore, poi l'orrida visione, mi diedero triste conferma di ciò che temevo: la porta famelica e traditrice, impediva l'accesso alla stanza ad una parte del mio corpo, stringendo in gelida morsa il mio povero... - f

- ...arto inferiore. Lo sentivo dimenarsi e chiedere aiuto dall'altro lato, e ne rimasi talmente impietosito che decisi di passargli una banconota da 5 sotto la porta. Almenchedicaquantunquevoglia, il mio picchio codadorata domestico, mi osservava incuriosito dal suo trespolo, sembrava addirittura divertito, con le sue piume stranamente erette solo sul basso ventre. Mi resi conto che poteva
essere solamente l'effetto del delorazepam che assunsi poche ore prima per calmare il mio delirio di onnipresenza, difatti i volatili non possiedono apparato genitale esterno... E cominciavo a chiedermi se tali vertebrati volanti fossero in grado di leggermi la mente quando, probabilmente sentendo le mie divagazioni confusionarie, mi disse: " Esprimiti siccome ti nutri! Sembra che degli scarafaggi attacchino e uccidano le persone! " Sicchè, dopo aver lasciato un arto in un'altra stanza, barcollando andavo verso la finestra e... - m

-...affacciatomi a guardare di sotto, tale fu lo sgomento ed il raccapriccio per ciò che vidi, che subito scordai il rammarico per l'arto perduto. Un'onda nera e compatta rabbuiava il prato: più scarafaggi di quanti avrei potuto contarne in tutte le cloache e sozze cantine di NuovaDheli, marciavano stretti in marziale coorte, corazzati di lucidi carapaci e sinistre antenne. Il loro avanzare tolse ogni dubbio su quanto aveva detto il picchio: era guerra. Nel tempo stesso in cui realizzavo la sconcertante verità, un rumore dietro la porta mi riportò nella stanza. Che fossero già qui? "Chi è là?" Chiesi con voce tremante. "Orisitde! Sento la tua voce e vedo il tuo piede, ma il tuo volto la porta mi nasconde!" Dolce suono, premura materna nella fresca carne di fanciulla: ella era arrivata. Corsi incontro alla porta, ma solo per  veder la mia illusione di conforto svanire: la serratura rimeva chiusa in modo crudele. "L'acciaio ci divide!" le dissi quasi alle lacrime. Ma nella perfezione che le era propria lei mi suggerì la soluzione: "Ascoltami Orisitde, mio amato, se da quella stanza vuoi fuggire, devi...- f

-...battere i tacchi tre volte a terra e gridare «Armando! Armando... Sacripante, tu sia maledetto!»" Fu con cieca fiducia e slovacca speranza quindi che mi accinsi a effettuare tale rituale tribale: «Armando!... Sacripante, tu sia maledetto!» e con trepidazione tesi l'orecchio per sentire lo scatto del chiavistello. Che non arrivava. "Parmenanzia, mia adorata, non ha funzionato" le dissi fissando il vuoto dentro di me. Ella mi rispose tranquilla: "Va bene Orisitde, allora userò la chiave". E i due vani furono di nuovo comunicanti. Lei mi fissava sorridendo, con i capelli che le nascondevano un occhio, e mi accinsi a scostarglieli con un gesto dolce, ma mi rimasero delle ciocche incollate alla mano: "Orisitde! Ma porca puttana!" Mortificato abbassai lo sguardo mentre sentivo il picchio ridere alle mie spalle, ma forse era frutto della mia immaginazione. Dopo aver recuperato il resto del mio arto che mi aveva aspettato diligentemente poggiato allo stipite, inspirai profondamente e mi rivolsi all'occhio non coperto dalla chioma della mia metà...- m

- ...mentre nel petto mi fremeva l'angoscia: "Parmenanzia, luce mia, la guerra incombe!" Al suo volto perplesso dovetti aggiungere: "Gli orridi esseri degli angoli umidi, marciano sulle nostre terre". Ella mi guardò, dapprima turbata, poi con un palmo della mano cinse il mio mento, formando un palmento, e il suo occhio si fece dolce e comprensivo: "Orisitde, cuore mio, custode bianco della mia anima, tepore e quiete della mia esistenza, sei proprio un minchione."
Ella non credeva alle mie parole! Ma come! Come poteva non aver visto anche lei la funesta ira dei bacarozzi? Come poteva intendere burlesco e birbone il tono grave della mia voce, che avessi mai potuto scherzare su cotanta sciagura? "Parmè, guarda amore, che hai frainteso il mio verbo, poichè non v'è gioco nelle mie parole. I neri camminatori avanzano, lo ha detto anche il picchio! Eh!" Aggiunsi, come a dire: mica lapislazzuli, per dinci!
Nell' unico occhio, che le chiome cotonate concedevano al mio sguardo, la dolcezza lasciò il posto ad una resa irritata: "D'accordo, mio diletto, se è guerra ai scarrafoni che hai veduto dalla finestra e che il picchio ti ha detto, chi io mai potrò essere per dire diversamente. Ma le guerre, Oristide amato, non fatte furono per finire in un giorno." Ella mi cinse il braccio, invitandomi a seguirla e continuò: "Per ora fai buon viso a cattiva sorte, e dai al nemico l'illusione della tua ritirata. Lascia che metta qualche punto croce sulla tua caviglia malandata, chè non intenderai di andar a combattere claudicando? Quando le tue forze avrai riavuto allora sì che potrai fare onore al campo di battaglia, lottando in modo degno del nome che ti accompagna."
Nella sua accondiscendenza ravvidi il germe infame della compassione. Ben misero che sono, pensai, non creduto dalla mia amata, assecondato come si suole con i vecchi e con i pazzi. Mi incamminai di fianco a lei, lasciandomi guidare nella mia presunta infermità, ma in cuor mio già elucubravo arditi piani di battaglia: se il fato aveva scelto me come unico guerriero di parte umana, mi sarei dimostrato all'altezza del compito! - f

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